lunedì 31 ottobre 2016

Recensione: Fine Turno, di Stephen King

La vendetta è un piatto da servire freddo. E il cuoco è tornato.

Titolo: Fine turno
Autore: Stephen King
Editore: Sperling & Kupfer
Numero di pagine: 478
Prezzo: € 19,90
Sinossi: In un gelido lunedì di gennaio, Bill Hodges si è alzato presto per andare dal medico. Il dolore lo assilla da un po' e ha deciso di sapere da dove viene. Ma evidentemente non è ancora arrivato il momento: mentre aspetta pazientemente il suo turno, infatti, Bill riceve la telefonata di un vecchio collega che chiede il suo aiuto, e quello della socia Holly Gibney. Ha pensato a loro perché l'apparente caso di omicidio-suicidio che si è trovato per le mani ha qualcosa di sconvolgente: le due vittime sono Martine Stover e sua madre. Martine era rimasta completamente paralizzata nel massacro della Mercedes del 2009. Il killer, Brady Hartsfield, sembra voler finire il lavoro iniziato sette anni prima dalla camera 217 dell'ospedale dove tutti pensavano che sopravvivesse in stato vegetativo. Mentre invece la diabolica mente dell'Assassino della Mercedes non solo è vigile, ma ha acquisito poteri inimmaginabili, tanto distruttivi da mettere in pericolo l'intera città. Ancora una volta, Bill Hodges e Holly Gibney devono trovare un modo per fermare il mostro dotato di forza sovrannaturale. E a Hodges non basteranno l'intelligenza e il cuore. In gioco, c'è la sua anima. Dopo "Mr. Mercedes" e "Chi perde paga", King ha scritto il capitolo conclusivo della sua trilogia poliziesca, nella quale l'autore, come ci ha ormai abituato, combina il suo senso della suspense con uno sguardo lucidissimo sulla fragilità umana. Dalla trilogia di Bill Hodges sarà tratta una miniserie TV diretta da Jack Bender.

                                                 La recensione
Dieci giorni fa, sulla via del ritorno dopo l'ultimo esame della triennale, miravo e rimiravo il mio libretto universitario ormai pieno e la copia nuova di pacca dell'ultimo Stephen King arrivato in libreria. Mi sono regalato sempre un suo romanzo, quasi tre anni fa, all'indomani del primo esame: quando conservavo gelosamente il mio unico cedolino compilato, chiamavo a casa per dirmi sopravvissuto all'ansia e, alla Mondadori accanto alla stazione, mi coccolavo a modo mio acquistando l'attesissimo Doctor Sleep. Tutto torna: il Re di sicuro. Allora c'erano un Danny cresciuto, l'indimenticato Overlook Hotel, nuove insidie per chi ha il dono raro della “luccicanza”. Ora, benché si parli di conoscenze assai più recenti, il tempestivo rientro e l'inevitabile congedo di Bill Hodges e della sua straordinaria squadra di collaboratori: puntualmente, arrivato Halloween, la trilogia iniziata con Mr. Mercedes giunge a conclusione. Degna?, mi domandavo, leggendo Fine Turno con la stesura della tesi in corso d'opera e l'acqua alla gola. I presupposti facevano pensare di sì.
Il romanzo precedente seminava nel finale dubbi, mine vaganti e speranze di vendetta. Il subdolo Brady Hartsfield, ridotto a un vegetale, non era un guscio vuoto: le infermiere giuravano che fosse in grado di muovere gli oggetti col pensiero. La verità, o il giovane ma famigerato Brady era già leggenda metropolitana? Le battute finali di Chi perde paga, paragonabili allo sguardo in camera del mostro in un film dell'orrore, assicuravano che c'era vita nella camera 217. Fine Turno, da patti, segna la svolta paranormale all'interno di un hard boiled vecchio stile: al ritmo secco e incalzante, al linguaggio da sbirri a tempo indeterminato, si affiancano quindi le doti telecinetiche di Carrie e le tecnologie infernali di un Cell. Hartsfield, dalla sua camera d'ospedale linda e pinta, muove come burattini i suoi tirapiedi e mette a punto, non visto, ennesime carneficine. I sopravvissuti alla strage della fiera del lavoro stanno morendo uno ad uno: gli apparenti suicidi, giustificati da una salute precaria e da traumi incancellabili. C'è qualcosa che stona però: una “Z” tracciata sui luoghi del crimine e la misteriosa presenza di console portatili: quegli Zappit ritirati d'urgenza dal mercato per i loro effetti collaterali. Alla Finders Keepers si indaga, e non si crede alle coincidenze di cui parla chi di dovere: Bill Hodges, con i settant'anni a un passo e un corpo che dà le definitive avvisaglie di cedimento, è convinto ci sia lo zampino del genio del male che, sette anni prima, lo stuzzicò fino a portarlo sull'orlo del baratro. Come accettare l'evenienza di possessioni, poteri e occultismo? Come far sì che la Polizia realizzi che ci sia lo stesso ispiratore dietro una catena di suicidi a distanza, e per di più vincolato nel reparto di neurologia? Come credere all'esistenza del soprannaturale, se ne hai viste di cotte e di crude, non hai più l'età per allargare i tuoi orizzonti e, da fruitore di gialli in versione tascabile, poco ti convincono le contaminazioni di genere? Ampliando un po' il contesto, durante la lettura, mi ronzavano in testa le stesse esatte domande che tormentano l'ispettore in pensione. 
Se i miei occhi brillavano di eccitazione all'idea di imminenti risvolti fantastici, riposto il secondo capitolo, l'entusiasmo è andato scemando a metà di questo Fine Turno. Emotivamente e stilisticamente perfetto, ma il più debole dei tre nell'ordito. E io, che leggo King con gli occhi dell'amore, sofferente al pensiero di fargli le pulci, questa volta so cogliere anche le cause della mia parziale frustrazione. Tutta colpa del redivivo Brady Hartsfield che, infame e irresistibile, era forse il personaggio che maggiormente aspettavo di incrociare ancora: nell'affermazione, tocca includere i suoi metodi discutibili e i suoi tirapiedi incoscienti; la vendetta trasverzale, invece, è sempre un movente convincente. Nei favolosi capitoli dedicati al suo progressivo risveglio, capiamo che quel paziente temuto e trascurato si è prestato suo malgrado come cavia: il medico curante l'ha imbottito di pillole all'avanguardia, poco interessato alle sue sorti, e forse gli effetti collaterali, forse la sua naturale malvagità, hanno predisposto la sua mente all'imponderabile. Uscendo fuori di sé, fa il suo molesto ingresso in corpi ospiti da manovrare alla stregua di burattini senza volontà. Il mio ma: l'autore non si limita a suggerirci di prendere così com'è la virata oltre i “confini della realtà”, ma si dà a spiegazioni meticolose e approfondite su suggestioni, messaggi subliminali, ipnosi, che saranno sì documentate, ma ai fini dell'intreccio suonano macchinose e ridondanti. 
La copertina, bellissima, allude ai pesci guizzanti e sfuggenti che compaiono sulla videata iniziale degli Zappit: gli emissari dell'antagonista, ubbidienti, hanno distribuito a un vasto campionario di adolescenti le console e, da lì, ammaliarli con suggerimenti melliflui e seducenti spie luminose. Stephen King vuole dare fondamento e credibilità alle soluzioni di Brady, qui personaggio assai sottotono. Vuole dirci, brillante affabulatore qual è, che non siamo nell'ambito di competenza dell'irreale, bensì di scienze tecnologiche che hanno risaputi pro e inquietanti contro. I giovani ingobbiti su smartphone e portatili, incantati dalle promesse illusorie dello schermo luminoso; menti elastiche ma fragili, spinte al punto di rottura. Su di me, inconvincibile scettico, la argomentazioni per dimostrare quanto di vero e quanto di inventato ci fosse, purtroppo, non hanno fatto presa; mi sarei fatto andare a genio il paranormale, che in King è una presenza tutt'altro che inconsueta, senza le speculazioni di sorta – e situazioni, e personaggi, nello stile di Uomini che odiano le donne. Di conseguenza, ho detto addio a questo Brady vagante e incorporeo, per cui eppure ho sempre avuto parole lusinghiere e superlativi assoluti, senza tanto entusiasmo; al contrario, infinita simpatia e affetto per una vecchia volpe che compensa con l'emozione a un ultimo caso che lascia, dunque, a desiderare. Fine Turno ha al comando un King divertito, schietto, agile quanto mai, che scivola talora nel già visto e in spiegoni non necessari. Troppo irrequieto ed esuberante per essere inflessibile giallista, rimanda purtroppo l'anello debole della sua trilogia alla fine, ma ci lascia in pegno protagonisti al loro meglio: una adorabile Holly, che ha vinto la sua pazza misantropia; un Jerome, con sorella infortunata a casa, passato da giardiniere su commissione a erudito, aitante benefattore; Bill e Pete, colleghi divisi dal pensionamento anticipato del primo, finalmente sullo stesso piano per anni di servizio, acciacchi grandi e piccoli, curiosità sempiterna.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Dire Straits – Private Investigations

venerdì 28 ottobre 2016

Zapping #3: Westworld, I Medici - Masters of Florence, Channel Zero

Il selvaggio west: terra di indiani e sceriffi, bettole affollate e deserti afosi, insidie mortali e brutti ceffi dal grilletto facile. Scenario ideale, per un avveniristico gioco di ruolo di cui puoi entrare a far parte. Paghi, e hai a disposizione l'illusione di sconfinate praterie, dame libidinose, avversari da sconfiggere: puoi avere il sesso e l'amore, l'avventura, dar voce al tuo sadismo. Gli abitanti di questo scenario fittizio, al pari di automi, hanno un copione da rispettare, non provano emozioni e, una volta al giorno, accolgono in stazione un treno con a bordo nuovi, curiosi visitatori. Coloro che popolano Westworld sono condannati a vivere giornate tutte uguali. Il divertimento dei visitatori, il corso degli eventi, dipenderà dal personaggio a cui si legheranno nel corso del loro viaggio: per loro non c'è rischio alcuno, però, e un perfido cavaliere in nero interpretato da Ed Harris – che è lì solo per compiere massacri, solo per scoprire livelli segreti del gioco che è diventato la sua vita – fa da filo conduttore. I personaggi di un mondo in cui tutto è lecito, dopo i bagordi degli acquirenti, vengono rattoppati in un laboratorio futuristico: dove spesso si litiga per decretarne le sorti, riscriverne dal nuovo i ruoli; dove ci si rende conto, presto, che qualcosa non va. Gli automi, così curati da sembrare persone reali, sentono la coscienza e i ricordi che affiorano. Westworld, acclamata già a scatola chiusa, non delude le attese. Cruda, affascinante, originalissima, è un incrocio tra Atto di forza e Ex Machina, con gli scenari sabbiosi del novello I magnifici sette e l'incentivo di un cast eccelso. Nell'arco di tutto il pilot, ronza una mosca che i protagonisti scacciano via con un gesto della mano: un fastidio che anticipa il risveglio dei sensi e, agli appassionati, sembrerà quasi un omaggio all'episodio più memorabile di Breaking Bad. Nell'arco dei restanti, immagino, ronzerà il pensiero di essere in presenza della potenziale serie dell'anno. (Sì)

I costumi d'epoca mi stanno stretti: non mi si addicono. Le serie storiche, dunque, non fanno breccia da queste parti: troppo impegnate e rigorose quelle britanniche, troppo soap quelle leggerissime alla Reign. Cercare l'eccezione alla regola, allora, in una fiction Rai, purché capace di vantare un cast internazionale, un battage pubblicitario che dura ormai da mesi, un lancio in anteprima mondiale? Onestamente, non ci speravo. Ma le basse aspettative, questa volta, non hanno aiutato a fare apparire il bicchiere mezzo pieno. Confesso che non ce l'ho fatta: io, che eppure ho infinite tendenze masochiste, a un certo punto ho spento. Così disastroso I Medici – Masters of Florence? Direi di no, ma provinciale, scadente e noioso: decisamente. Presentato come il fiore all'occhiello del palinsesto di quest'anno, annunciato come la svolta che il piccolo schermo italiano aspettava, è la solita minestra scondita e allungata, né più e né meno. Ai livelli di Elisa di Rivombrosa, per dirvi. Al punto che ti guardi intorno e cerchi la presenza confortante del solito Beppe Fiorello, che avrebbe fatto senz'altro meglio dell'annoiato cast straniero. I Medici (“in famiglia”, aggiungerei) è storicamente lacunoso e stilisticamente mediocre: la cura di scenografie e costumi, che comunque non è mai mancata alle fiction Rai, notoriamente superiori a quelle Mediaset, non è assecondata dalla regia, che più televisiva non si può, e dal cast. Stendiamo un velo pietoso sugli attori italiani: pur non volendo cadere nel solito pregiudizio che li vuole tutti inadatti e limitati, è impossibile spendere parole gentili, tra doppiaggi risibili, boccoli freschi di messa in piega, comprensibili complessi di inferiorità. Per fortuna, anche se per poco, risveglia i sensi la visione della venere Miriam Leone, giacché anche l'occhio vuole la sua parte. Per tutta la puntata, per tutte le puntate, le spettatrici potranno dire lo stesso del Richard Madden di Games of Thrones: un bellissimo Cosimo, che trasforma gli etero convinti in Cristiano Malgioglio e sul quale Facebook non si risparmia gif e doppi sensi; peccato che, oltre all'occhio blu, non abbia altri pregi. E l'atteso Dustin Hoffman, poi, che pensa soltanto a riscuotere il suo lauto compenso nel minor tempo possibile? Per riprendersi dalla delusione di questi Medici non basta la mutua. (No)

Mike Painter, psicologo e scrittore di mezza età, torna nella città natale. Lì dove trent'anni prima è scomparso il fratello gemello senza lasciare traccia. Lì dove, prima di lui, la stessa fine è toccata ai bambini del posto, di cui non sono rimasti che i corpicini appesi a un vecchio albero, con i denti cavati di bocca uno per uno. A portarlo dove tutto ha avuto inizio, un nuovo libro da scrivere e, all'indomani di un brutto esaurimento nervoso, una verità di cui venire a capo. Neanche il tempo di riallacciare i rapporti d'infanzia, di riabbracciare una madre un po' rancorosa e un'amica nostalgica, che le sparizioni ricominciano. Ovviamente, lui – figliol prodigo dalla dubbia lucidità mentale – è il primo sospettato. Ovviamente, si ha la sensazione di essere su una scena del crimine vecchia come il mondo, davanti all'ennesimo giallo dalle puntate contate. A sorpresa, Channel Zero – serie antologica in sei parti ispirata ai brividi del filone internettiano “creepypasta” - non è così scontato. Fanciullesco, onirico, inaffidabile, il pilot del prodotto Syfy è più suggestivo e inquietante di qualsiasi American Horror Story: violenti flashback, sinistre marionette, mostri composti da denti umani che strisciano fuori dalle caverne. Ti domandi: cosa ho visto? E speri di scoprirlo, e di provare la stessa surreale angoscia, negli episodi seguenti: protagonista anonimo e un po' antipatico permettendo. Channel Zero, profondamente kinghiano, parla di due fratelli identici e inseparabili che, guardando il televisore spento, si sono inventati un programma televisivo immaginario; un mondo tutto loro. E, chissà come o perché, hanno fatto sì che potessero vederlo anche i loro coetanei, sintonizzandosi sul “canale zero” del titolo. Gli stessi che non molto tempo dopo muiono, invendicati. Vogliamo forse sfidare la sorte e passare oltre, telecomando alla mano, se Halloween è alle porte, lo show si è palesato anche agli occhi delle nuove generazioni e questa terrificante figura dentuta potrebbe vendicarsi per l'affronto? (Sì)

mercoledì 26 ottobre 2016

Mr. Ciak - Speciale Halloween: Train to Busan, Goodnight Mommy, 31, Martyrs (US)

Su un treno ad alta velocità diretto a Busan, in una Corea annientata da un contagio di cui si intuisce appena l'origine, si incrociano le storie di personaggi agli antipodi, ma in lotta per avere salva la vita. Dislocati da un capo e l'altro dello stesso convoglio, devono raggiungersi. Un broker anaffettivo, divorziato, e la figlia per cui non è mai stato presente; una scolaresca; una coppia in attesa del loro primogenito; due sorelle anziane, che vivono in simbiosi. Al centro, però, vagoni e vagoni stipati di infetti famelici: la bava alla bocca, i morsi letali, fame di carne umana. Presentato prima a Cannes, poi alla Festa del cinema di Roma, Train to Busan è il film sugli zombie che i festival internazionali – vuoi lo straordinario successo in patria o le coloriture politiche che, purtroppo, non ho saputo cogliere – non si sono lasciati sfuggire. Cosa ci fanno i morti viventi, tra pellicole impegnate e critici con la puzza sotto il naso? Come si sopravvive su un mezzo affollato che, spedito, punta dritto all'apocalisse? L'horror di Sang-ho Yeon, regista orientale che proviene dall'animazione più all'avanguardia e che solo ora, solo qui, passa agli attori in carne e ossa – la carne, però, dev'essere rigorosamente al sangue, come i survival di ogni dove insegnano -, piace ai più colti per il ritratto di una Corea contemporanea, dilaniata, contraddittoria; a tutti gli altri – dunque, a me, a digiuno di attualità – per l'intrattenimento perfetto che, con le sue due ore dense e angoscianti, rappresenta. Non sono un appassionato di cinema coreano e gli zombie, visti in tutte le salse, in ogni contesto immaginabile, sono le figure da brivido che meno mi attirano. Nonostante le riserve iniziali, però, Train to Busan è una corsa a perdifiato, sorprendente per realizzazione, ritmo, sentimenti in ballo; non mancano una o due trovate spassose – il buio pietrifica i non-morti, ad esempio, e i protagonisti, allora, si trovano ad attendere la galleria successiva come l'acqua nel deserto –, ma non erano stati messi in conto gli occhi un po' lucidi, in un finale mélo. L'umanità disparata e disperata di Yeon, autore altresì generoso con lo splatter e la spettacolarità in pieno stile Hollywood, si stringe forte, infatti, contro la pandemia; e gli esseri umani, vili, a volte feriscono più dei mostri. Questi zombie corrono come atleti olimpici, elevano muraglie di morti, si ergono come una barriera tra te e la speranza. Questi protagonisti, eroi disarmati ed empatici, fanno stringere i pugni e le lacrime della piccola Soo-an, mossa dalla tenera volontà di conquistare l'attenzione di un genitore sfuggente, spezzano il cuore. Senti il suo pianto, la sua canzone, alla fine del tunnel? (7,5)

Lucas ed Elias sono angelici, biondi e perfettamente identici. Per loro, ogni momento è buono per giocare; per loro, è sempre estate. Si inseguono sotto la grandine, giocano nei boschi e il loro rapporto, simbiotico e misterioso, è troppo stretto e morboso per comprendere un'altra persona. Esclusa perfino la mamma, dunque, che trovano assai cambiata dopo un'operazione di chirurgia plastica al viso. Sotto le bende, ci sarà la donna di sempre o c'è stato uno scambio? In una casa impersonale e dispersiva, immersa nel folto dei boschi viennesi, si consuma così un angosciante e malato gioco di ruolo: i posti si invertono, le vittime diventano carnefici e i dubbi si accumulano. Goodnight Mommy, gelido thriller psicologico coi ritmi lenti e le immagini senza sbavature del cinema europeo, parlerà di mamma folli o dell'innocenza del diavolo? Ibrido a metà strada tra il dramma esistenzialista e l'orrore, il lungometraggio diretto a quattro mani dalla coppia Fiala-Franz si rivela sì e no all'altezza delle alte aspettative. In rete, ormai mesi fa, già recensioni fidate lo accoglievano con entusiasmo. Goodnight Mommy è inquietante, simbolico, malato: materia freudiana fatta di incubi ad occhi aperti, disgustose allucinazioni a sprazzi, misteri che purtroppo hanno esiti molto prevedibili. Se il colpo di scena finale risulta scontato, al contrario appaiono però di grande originalità la curata messa in scena – la casa dei tre è una prigione austera, piena di ombre acuminate – e svolte crudeli che vanno al di là della violenza fisica e psicologica. I volti fasciati e la crisi di identità. Cornici vuote e tragedie di cui nessuno parla. Fratelli coalizzati sempre, anche nel perpetrare il male. Una paura realistica, ma meno universale che nello splendido The Babadook – anche lì l'infanzia, l'essere genitori e metafore su metafore – che non ti abbandona. Goodnight Mommy è una stridente ninna nanna con lo stile di La pelle che abito e un non so che del miglior Polanski: sgradevole e strisciante, nonostante tutto, come il pensiero che fino alla fine ti accompagna. Quante energie ti prosciuga un bambino? Soprattutto, perché un figlio? (7)

Siamo negli anni '70, ed è la notte più infestata dell'anno. C'è, però, chi ad Halloween si diverte a modo suo: a spese degli altri. Come una ricca e misteriosa coppia di coniugi che, imbellettati come due antichi artistocratici, ospitano una casa degli orrori che è la loro corte di sanguinari e bizzarri assassini. Tradizionalmente, giunto il trentuno di ottobre, catturano le loro prede: questa volta, una rozza e affiatata compagnia di giostrai girovaghi. Devono sopravvivere agli attacchi letali di nani neonazisti, losche figure da fumetto e pagliacci con nessunissima voglia di scherzare. Vedere l'alba, a Murder World, è un'impresa. Come eludere, per dodici ore, la compagnia della morte? Dopo i bistrattati Salem e Halloween, Rob Zombie – per alcuni regista cult, per altri sconclusionato affabulatore: io, al solito, sto comodo al centro -, sembra abbandonare i concettualismi da poco e ritornare alle origini. C'è tanto della famiglia Firefly, Sheri Moon compresa, nell'allegra brigata protagonista. Zombie ritorna con un horror piccolo, a basso budget, il cui titolo suona quasi come un matematico conto alla rovescia: dopo La casa dei 1000 corpi, adesso questo 31. Survival tutt'altro che inconsueto negli sviluppi, che sembra un The Purge rivisto e corretto: sporcato dentro e fuori, fino alle ossa, da un regista che non va per il sottile. Il gore, la patina di sporcizia superficiale, i villain memorabili – su tutti, il “conte” McDowell e un esagerato Richard Brake, che farebbe le scarpe a qualsiasi Joker da strapazzo. Purtroppo, l'originalità di 31 si limita al monologo d'apertura e a una chiusa irrisolta, con gli splendidi Aerosmith in cuffia; agli sporadici guizzi nella caratterizzazione dei comprimari. Il resto, una lotta alla sopravvivenza a cui ripetitività, interpretazioni e resa non giovano di certo. Zombie, raffinatissimo perfino nello shock e nei litri di profondo rosso versato, altrove si era dimostrato un abile regista: qui, senza controllo del mezzo e con un'irritantissima telecamera a mano, si dà alle riprese traballanti, amatoriali, e nelle scene più concitate confonde fino al mal di stomaco. 31, inizialmente annunciato dal modesto Rob come il suo capolavoro, perfino molto atteso, in realtà è il solito horror con figurine abbozzate, senza ieri e senza domani, con antagonisti rimarchevoli e la regia di uno Zombie che farà parlare pochissimo di sé, se non per la grana insolitamente grezza della sua ultima regia. (5,5)

Correva l'anno 2008. E, a scatola chiusa, mi procuravo sottotitolato un horror sconosciuto, che di lì a poco tutti avrebbero considerato capolavoro. Martyrs mi aveva convinto a metà: un inizio folgorante, che ammiccava alla ghost story, al “rape and revenge”, e un prosecuzione logorante, sadica, in cui l'occhio della macchina da presa indugiava fino alla noia sulle violenze ai danni della tribolata protagonista. La domanda: cosa c'è dopo la morte? Otto anni dopo, se qualcuno me lo chiedesse, direi che non mi era piaciuto, giacché di mio tengo a mente più gli epiloghi – quello, di estrema crudeltà – che gli ottimi spunti. Vuoi azzardare il remake di un cult, tu, se sei parte di una coppia di registi esordienti, hai un cast televisivo, tutto il mondo contro e la possibilità concreta che il film, messo già alla gogna, sia distribuito solo in homevideo? Vuoi sfidare i cinefili che ancora prima di vedero, avevano espresso un giudizio sfavorevole, su Imdb? I fratelli Goetz e gli sceneggiatori di Vacancy ci provano. Due orfane, a dieci anni dal loro incontro, fanno irruzione in una casa come tante: brutalmente, la più provata del duo massacra i membri della famiglia. E, nel loro scantinato, scoperchia un segreto scomodo. Fino a metà, il nuovo Martyrs è lineare e rispettoso: meno cupo, meno autoriale anche, non ha però il taglio dozzinale che presumevo. Nella seconda parte, invece, prende una strada alternativa, diventando tutt'altro: forse il solito horror americano, che meno indugia nei dettagli morbosi, meno prova le nostre resistenze, ma agli occhi di chi l'originale – proprio in vista del bagno di sangue conclusivo e degli spiegoni intrisi di misticismo – non l'aveva bene assimilato, il lavoro dei Goetz pare decoroso. Certo, le sevizie sono blande e lo splatter parsimonioso. Certo, forzato parlare di martirio – le sedute di tortura sono costellate di ellissi – e irrealistica la riscossa finale di una delle protagoniste. La Sally Langston di Scandal è un'affascinante antagonista;Troian Bellisario, con la sua eroina traumatizzata e dolorante, si conferma la sola interprete capace nell'allegro pollaio di Pretty Little Liars. E questo Martyrs perderà prevedibilmente il confronto con il suo capostipite – ne lima le particolarità, gioca a carte scoperte, non tenta la via della provocazione intellettuale – ma a chi, isolata voce fuori dal coro, all'altro aveva rimproverato presunzione, sofismi e persistenza, sembrerà un trattamento tutt'altro che barbaro; non il massacro predetto. (6)

sabato 22 ottobre 2016

Recensione: Quello che non sai di me, di Meg Wolitzer

Scoprire i sentimenti di un altro essere umano, di una persona che non sei tu. Andare oltre la maschera. Cercare uno sguardo più profondo. 
Scrivere dovrebbe servire a questo.

Titolo: Quello che non sai di me
Autrice: Meg Wolitzer
Editore: Il Castoro – HotSpot
Numero di pagine: 270
Prezzo: 15,50
Sinossi: Jam ha sedici anni, è distrutta dalla scomparsa del suo fidanzato e fatica ad andare avanti con la sua vita. Dopo più di un anno i genitori decidono di mandarla alla Wooden Barn School, un college in campagna specializzato in ragazzi “fragili”, incapaci di superare eventi tragici che hanno segnato le loro vite. All’inizio niente sembra aiutarla, poi Jam viene assegnata, insieme a pochi altri alunni, al misterioso e ambitissimo Corso Speciale d’Inglese della signora Quenell. Un unico libro da leggere e condividere, La campana di vetro di Sylvia Plath, e un diario da scrivere, in cui raccontare le proprie esperienze. La scrittura dei diari apre l’accesso a un mondo apparentemente idilliaco, un luogo in cui tutti possono continuare a vivere come se la tragedia che ha cambiato le loro vite non fosse mai avvenuta. E Jam può sentire di nuovo le parole di Reeve, la sua pelle, il tocco delle sue mani. Ma non ci vuole molto perché quel luogo incantato riveli che tutti i compagni nascondono un segreto nel loro passato. Quale sarà il segreto di Jam? Attraverso un’avvincente esplorazione della psiche umana, Meg Wolitzer racconta che cosa significa perdere qualcuno, o qualcosa, che ami. E poi perderlo un’altra volta.

                                             La recensione
A sedici anni ci si può ammalare di depressione? Dopo trentuno giorni di conoscenza, si può giurare che è grande amore e piangerlo notte e giorno, se poi malauguratamente lo si perde?
Jam hai i capelli lisci e scuri, una famiglia tranquilla, un dolore incondivisibile. A scuola ha conosciuto Reeve, studente inglese protagonista di uno scambio culturale: è stato autentico colpo di fulmine, con i suoi maglioni sfilacciati, il suo umorismo british, un accento irresistibile con cui compensare a un fisico da spilungone. Si sono innamorati presto, loro due, e altrettanto presto si sono separati: un incidente misterioso, e ora Jam è sola e inconsolabile. Tutti le dicono che, in fondo, non si conoscevano neanche molto. Tutti le dicono che, un giorno, le lacrime finiranno e il dolore, così com'è affiorato, svanirà. Invece, quella voglia di dormire e non svegliarsi mai più, il groppo in gola, non passa: spaventati al pensiero che possa farsi del male, i genitori la iscrivono alla Wooden Barn School. Un istituto tagliato fuori dal mondo – non c'è una connessione internet, né campo per i cellulari -, in cui riunire persone tali e quali a lei. Giovanissime, eppure già stanche di vivere; povere anime messe a dura provate dal mondo. Quello che non sai di me, nuovo titolo della pregevole collana per adolescenti HotSpot, ha inizio con l'ingresso della protagonista in queste scuola popolata da ragazzi fragili e cure che non prevedono ansiolitici, bensì pagine di diario da stilare due volte a settimana. Ammessa nel Corso Speciale di inglese della misteriosa signora Quennell, insegnante a un passo dal pensionamento, Jam divide l'aula con altri quattro studenti: impareranno a conoscersi, e a capirsi, sulla scia degli scritti di Sylvia Plath, poetessa statunitense morta suicida all'età di trent'anni. Una buona idea, se già di tuo tendi a essere in preda allo sconforto, studiare vita, morte e miracoli di un'autrice che la fece finita infilando la testa nel forno a gas? Costruttivo respirare la stessa aria, dividere i pasti e i compiti per casa, con coetanei che forse se la stanno passando addirittura peggio di te? Il romanzo di Meg Wolitzer, debutto dell'apprezzata autrice di Quando tutto era possibile nella narrativa per ragazzi, è un young adult rarissimo: colto nelle citazioni, raffinato, scritto con leggerezza e giudizio. 
A metà strada tra le atmosfere di Breakfast Club e quelle di Ragazze interrotte, ha inizio in maniera consueta: una protagonista chiusa a riccio, un nuovo inizio altrove, compagni di corso da mettere a fuoco – tra questi, l'immancabile bel ragazzo che tutto sembra domandarle, tranne una storia d'amore. La sua grande particolarità: i riferimenti a The Bell Jar, capolavoro dagli spunti autobiografici della Plath, che il titolo originale omaggia apertamente. I protagonisti, infatti, si trovano sotto una “campana di vetro”, che tende a isolarli da tutto e da tutti, con la sola compagnia del loro violento senso di colpa. Nei piani dell'illuminata professoressa Q., allora, il desiderio che i suoi allievi sull'orlo di una crisi di nervi mettano nero su bianco le loro storie, affidandosi a diari da restituire alla fine delle lezioni. A questo punto, Quello che non sai di me si tinge di fantastico: la scrittura getta i protagonisti come in uno stato di trance e, con la penna in pugno e un foglio bianco davanti, i cinque rivivono il giorno in cui tutto è andato per il verso storto.
Con la variante, però, di poterlo rivivere senza drammi: Jam ha ancora il suo fidanzatino inglese, Sierra un fratello vivo e vegeto, Marc un padre traditore ma presente, Casey l'uso degli arti inferiori, lo scontroso Griffin un granaio poi raso al suolo da una scintilla vagante. Una pagina bianca: infiniti mondi. Possono rifugiarsi lì, nell'illusione, e non tornare più indietro? Cosa succederà quando, inevitabilmente, le pagine del diario si esauriranno? Nome in codice per parlare senza dare troppo nell'occhio di quello splendido non-luogo, di un mondo dell'inconscio in cui tutto è possibile: Beljhar. Onesto e ironico dramma corale, per nulla stucchevole e sospiroso, Quello che non sai di me è un romanzo semplice, immediato, ma dal bagaglio pesante. Tra le righe, un colpo di scena ad effetto sul passato di Jam – ognuno usa mezzi diversi per proteggersi, lo spiegava anche Alejandro Palomas nel recentissimo Un figlio; ognuno ha i propri sassi nelle scarpe –, insieme al vago senso di déjà vu legato a un messaggio scontato, ma necessario. A proposito di lenzuola da scalciare via e letti da abbandonare con il piede giusto, di miraggi da non assecondare, di vestiti a lutto da riporre nell'armadio. 
Soprattutto se hai sedici anni. Soprattutto se niente è come appare. 
Dietro una vicenda come tante, un'ispirata metafora sul potere della scrittura: sgrammaticata o rigorosa che sia, non importa. Perché scrivere – scriversi libera, consola, porta alla luce i fantasmi. E così, smascherati, non fanno più paura. Io lo so.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Gnash – I hate U, I love U (ft. Olivia O'Brien)

giovedì 20 ottobre 2016

Zapping #2: The Exorcist, Quarry, The Good Place

In anni di rimaneggiamenti e scarsa fantasia, l'idea del remake, infine, ha sfiorato anche L'esorcista. Horror cult visto quando non avevo ancora l'età, verso cui non ho nutrito mai chissà quale timore: reverenza, sì, perché anche a detta di chi, guardandolo, non è saltato dalla poltrona, la piccola Regan e la sua storia infernale non invecchiano mai. Tacciono i soliti detrattori, però. E, in casa Fox, il novello The Exorcist è stato accolto senza scomporsi. In parte, perché dietro a un nome che pesa c'è tutt'altro: se sia un seguito o un reboot, infatti, non è ancora chiaro. In parte, perché è una serie che spicca per discrezione e non per ascolti alle stelle. Dietro un titolo inequivocabile, un'altra storia. In una famiglia di persone devote e di buon cuore, in cui la matriarca è interpretata da una tiratissima ma convincente Geena Davis, la piccola di casa – ingenua e seducente insieme - inizia a comportarsi in maniera inquietante. Ci si appella al parroco del quartiere, giovane dalla fede vacillante, che a sua volta chiede la consulenza di un prete noto per i suoi metodi poco ortodossi. Qui e lì, a intermittenza, risuona lo storico motivetto che la produzione avrà pagato fior di quattrini per avere. Qui e lì, The Exorcist ha i suoi bei pregi: l'interpretazione di Ben Daniels, già magnetico coreografo in Flesh and Bone – il suo giovane collaboratore, invece, è il messicano Alfonso Herrera, visto in Sense8; un taglio affascinante; i serial killer fanatici che, a partire dal secondo episodio, sterminano un quartiere, strappando di netto cuore e occhi alle vittime. Cosa lo distingue, però, dallo sfortunato Damien e da quell'Outcast che, per noia, ho volentieri abbandonato a sé stesso? Cosa ha in comune con il capolavoro di Friedkin, e perché non scegliere di intitolarsi in altro modo? Sperando che trovi una sua strada e che, con il tempo, il pubblico americano decida di non cambiare canale, lo seguo volentieri. I pro che affiorano potrebbero vincere i contro, i pregiudizi e gli irragionevoli, ma inevitabili, confronti. ()

Mac, di ritorno dalla guerra del Vietnam, scopre che non c'è più posto per lui. Il padre si è risposato, la moglie l'ha tradito; gli si nega un lavoro decoroso e, in città, tutti parlano a mezza voce di uno scandalo ignominioso successo al fronte. Cosa fare, se nulla hanno potuto i vietcong, ma il destino si è accanito contro un uomo brusco, ignorante, un po' violento, ma fondamentalmente sfortunato? Non resta, perciò, che darsi su richiesta alla vita criminale. Il reduce senza speranze, ora sicario improvvisato, è il protagonista di Quarry, miniserie tratta dai premiati romanzi noir di Max A. Collins. I ritmi sono lenti, introspettivi, e gli ambienti grigi e sporchi: siamo dalle parti di un True Detective, spiegazzato, insonne, metropolitano. Sullo sfondo, gli anni Settanta dello scandalo Watergate, tornati già di moda con The Get Down e Elivs & Nixon. Ma senza lustrini, disco music, luoghi comuni. Il protagonista, eccellente, è il Logan Marshall Green che spiccava, per la bella barba e la bella faccia, nonché per l'impressionante somiglianza con Tom Hardy, nel thriller “da camera” The Invitation. Di lui - che esagera, si sporca e si spoglia, come Mortensen in La promessa dell'assassino - e di questo Quarry, giunto intanto al sesto di otto episodi, sentiremo senz'altro parlare. (Sì)

Eleanor Shellstrop, in vita, non è mai stata una santa. Bugiarda, avida, egoista. In vita, dico, perché ora è morta: investita da un camion che trasportava Viagra, nel bel mezzo del parcheggio di un grande supermercato. La sua grottesca dipartita, tra il tragico e il ridicolo, le ha permesso di occupare un posto d'eccezione in paradiso. Un aldilà su misura, progettato da Michael: braccio destro dell'Altissimo, lì al suo primo incarico. Ci sono case colorate, cieli blu, si vola e si incontra l'anima gemella planando. Ci si capisce, perché tutti parlano la stessa lingua. Ma l'architetto celeste, sbadato e inesperto, ha fatto un errore madornale. La protagonista, infatti, pecora nera, era destinata all'altra metà del cielo. Lo sanno solo lei – una Kristen Bell che ci riprova in tivù, ma con scarsa convinzione – e il suo unico amico. Manterranno il segreto? Riusciranno a renderla abbastanza gentile da meritarselo, un posto lassù? La sua presenza, intanto, scatena il caos. The Good Place, comedy con la ex Veronica Mars in cerca di nuovi ingaggi e altre mete, è un intrattenimento dei più innocui. Realizzato così così, non particolarmente divertente, da vedere solo se non si ha di meglio. Prevale, in generale, l'impressione che durerà poco. Soprattutto, la sensazione che nel “posto cattivo” ci sarebbe stato tanto, tanto di più per cui divertirsi. (No)

domenica 16 ottobre 2016

Recensione: L'imperfetta meraviglia, di Andrea De Carlo

Ecco la meraviglia imperfetta. Al grado più alto di perfezione che l'imperfezione potrebbe mai raggiungere.

Titolo: L'imperfetta meraviglia
Autore: Andrea De Carlo
Editore: Giunti
Prezzo: € 18,00
Numero di pagine: 366
Sinossi: Succede in Provenza, d'autunno, stagione che mescola le prime umide nebbie con un lungo strascico di calore quasi estivo. I borghi e le ville si stanno vuotando di abitanti e turisti. Ancora un grande evento però si prepara. Quasi a sorpresa, sul locale campo di aviazione, si terrà il concerto di una celebre band inglese, i Bebonkers, un po' per fini umanitari, un po' per celebrare il terzo matrimonio di Nick Cruickshank, vocalist del gruppo e carismatico leader. I preparativi fervono, tutti organizzati con piglio fermo da Aileen, futura moglie di Nick. In paese c'è una gelateria gestita da Milena Migliari, una giovane donna italiana che i gelati li crea, li pensa, li esperimenta con tensione d'artista. Un rovello continuo che ruota attorno all'equilibrio instabile del gelato, alla sua imperfetta meraviglia perché concepita per essere consumata o per liquefarsi, per non durare. Milena ha detto addio agli uomini e convive da qualche anno con Viviane. Un rapporto solido, quasi a compensare l'evanescenza dei gelati, l'appoggio di una donna stabile e forte, al punto che, tra qualche giorno, Milena si sottoporrà alla fecondazione assistita. Eppure, in fondo, Milena non ha voglia di farlo davvero questo passo che forse non ha proprio deciso. Incerta senza confessarselo, Milena. Come Nick, che si domanda da quando il suo rapporto con Aileen ha perso l'incanto dei primi tempi.
                                               La recensione
Lei, Milena Magliari, ha aperto una piccola gelateria in una Provenza che, d'autunno, si spopola: italiana trapiantata in Francia, senza radici, ha rinunciato al fare possessivo degli uomini del suo passato e, infine, ha ripiegato sull'amore per le donne e l'alta pasticceria. Lui, invece, è Nick Cruickshank e, se solo non fosse un personaggio d'immaginazione, il suo nome ti suonerebbe familiare: stella del rock sul viale del tramonto, frontman di un'apprezzata band di canaglie bontempone, è in Europa per un concerto di beneficenza in grande e per il suo ennesimo matrimonio – se il terzo o il quarto, mi sfugge. Cosa c'entrano un'italiana e un irlandese in Francia, con un piccolo corto circuito che minaccia di liquefare un accurato lavoro di pazienza e ispirazione, un incontro che cambia d'un tratto i piani a lungo termine, una riflessione sull'imprevisto e sugli attimi da cogliere, come fossero margherite in un prato? Soprattutto, cos'è di lui e lei – insieme, un sorprendente loro -, se i protagonisti hanno appena un weekend per rivoluzionarsi e, a scrivere, c'è uno scrittore che non facevo così romantico, così delicato? L'imperfetta meraviglia, che ha un titolo bellissimo e una copertina che fa gola in qualsiasi stagione, con il caldo e con il freddo, è l'ultimo romanzo di un Andrea De Carlo che leggo solo ora: al passaggio dalla Bompiani alla Giunti; galeotta un'atipica commedia italiana che non immaginavo nelle sue corde, né nelle mie. Autore prolifico e generazionale, inarrestabile tra gli anni Ottanta e Novanta, De Carlo si era fatto conoscere dai più giovani come giudice di Masterpiece, talent letterario destinato a chiudere presto scuri e battenti: su Rai Tre, in tarda serata, con i suoi giudizi spietati e la sua alterigia, lo avevo trovato irritantissimo. Questione di ruolo, indubbiamente; colpa del personaggio del maestro inflessibile e spocchioso che, come Carlo Cracco, si era cucito a pennello. Se lo chef veneto, così facendo, risulta però bello e dannato da svariati palinsesti, Andrea De Carlo mi era parso solo antipatico: addio, così, al buon proposito di leggere Due di due, da anni sul ripiano più alto del mio scaffale. Meraviglia sì, perciò, il ritorno con L'imperfetta meraviglia; scoprirlo gentile, ma meticoloso narratore di questa squisita storia dai toni pastello, in cui un uomo qualsiasi incontra una donna qualsiasi nel momento meno propizio. A capitoli alterni, in terza persona, i protagonisti si svelano. La professionalità di un autore con diciannove romanzi all'attivo è tutta lì: in lunghi scandagliamenti interiori, in rimuginamenti che suonano spesso prolissimi, ma assolutamente autentici.
Milena, compagna della fisioterapista Viviane, è in crisi: la partner preme per la fecondazione assistita, vuole volare in Spagna e diventare genitore, ma la geniale gelataia ha qualche dubbio. Si sente messa alle corde. Pensa che, per l'ennesima volta, la persona con cui divide il letto – uomo o donna, non importa - stia scegliendo a nome di entrambe. Viviane la sottovaluta, Viviane la sommerge di aspettative: rischia di implodere o annegare, mentre elabora nuovi gusti (un esemplare fiordilatte, un cachi irresistibile) nella sua pittoresca bottega di paese e, su ordinazione, sale in auto e porta dieci chili di gelato a un'eccentrica donna dall'accento straniero. Nick, futuro marito della stilista Aileen, ha aperto il suo villino ristrutturato in vista delle nozze imminenti: gli ospiti sono numerosi e invadenti, i membri della sua storica band e le loro capricciose consorti litigano ogni tre per due e, in una casa sconfinata, lui che all'apparenza ha tutto, si trova a non avere spazio a sufficienza per mettersi in un angolo e godersi i benefici della solitudine: un libro dell'Odissea da leggere, senza che nessuno dica, canzonandolo, che non lo faceva tipo da hobby sofisticati; un mandolino da strimpellare, magari, che stonerebbero troppo nelle immutabili sonorità degli ormai stanchi Bebonkers; un altro assaggio delle meraviglie della pasticciera che, mite e solare, misteriosa e affabile, ha bussato alla sua porta con dieci vaschette di gelato, due occhi belli da morire, una storia di cui vuotarsi le tasche. 
Ma sono diversissimi, e non è bene parlarsi, nel chiasso degli invitati parvenu. Non è che si piacciono, non proprio: si capiscono al volo, però. E il loro essere ugualmente inappagati, le loro relazioni ugualmente a un bivio, li renderanno timidi e complici, simili, ma alla maniera di quei boy meets girl in cui si chiacchiera di tutto e di niente, in cui ci si ama ma distanza, all'ombra di suggestive città e finali in sospeso. E io che, in gelateria, richiedo sempre il solito cono nocciola e pistaccio, da sgranocchiare al volo passeggiando; senza andare tanto per il sottile. E io che pensavo che l'impegnato De Carlo non conoscesse la leggerezza, la grazia dei colpi di fulmine; che il divo e la pasticciera fossero dotati di ingegno acuto, palato fine e poco cuore...
Coppetta o cono? E il cucchiaio, ancora: di plastica, legno o metallo? Nei gelati di Milena – per cui, tra l'altro, sembra valere il detto: dimmi cosa prendi al bancone, e io ti dirò chi sei -, trovano posto spolverate di pepe rosa e spezie impensate, lacrime versate e sorrisi conciliatori. Pizzicano il palato, allietano il cuore. Come loro, L'imperfetta meraviglia: curato, ironico, genuino. Una commedia dal piglio inaspettato, rinfrescante e malinconica, in cui gusti e pensieri fanno pendant. Da divorare prima che ci si sciolga in mano e che, nel pugno, restino grani di zucchero che sembrano polvere di stelle. La crema nella barba, i frammenti di cialda addosso, le antiestetiche sbavature di sorta. Per godersela e riconoscerla, la meraviglia - quella delle storie semplici, quella delle narrazioni ad ampio respiro -, finché dura.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Lumineers - Flowers in your hair 


mercoledì 12 ottobre 2016

Mr. Ciak: Café Society, Swiss Army Man, Julieta, Suicide Squad, Elvis e Nixon

Bobby, giovane ebreo di belle speranze, abbandona il Bronx per Hollywood, confidando negli agganci dello zio produttore: medita presto, però, di fare ritorno a casa. Magari accanto a Vonnie, segretaria nel bel mezzo di una complicata relazione clandestina. Nella seconda metà ci si sposta a New York: il protagonista, con l'aiuto di un fratello criminale, fa del suo cuore spezzato fonte di ispirazione. Incontra una donna bellissima – un'altra Veronica -, nasce un locale notturno popolarissimo, ma nessuna città è grande abbastanza, la gente mormora e il passato, sotto forma di visita di cortesia, bussa alla porta. Café Society, ultima commedia di quel Woody Allen che quest'anno non attendevamo tanto presto, è stata bene accolta a Cannes ed esce sulla fresca scia di quell'antipatico disastro che era stato Irrational Man. Si ritorna al passato, di nuovo, se gli accademici alcolisti e le trame che virano al thriller, appena qualche mese fa, non avevano fatto breccia: tanta noia, poca magia. E non c'è traccia della prima ma un po' della seconda, per fortuna, in questo sentito omaggio al cinema dei telefoni bianchi, in cui la perfezione della confezione – costumi irresistibili, scenari splendidi e tanto jazz – contribuisce a farci chiudere un occhio, o entrambi, su una sceneggiatura a cui manca il guizzo. Il solito Allen, né il migliore né il peggiore su piazza, frizzantino e nostalgico, che sceglie di fare di Jesse Eisenberg – già nevrotico e prolisso di per sé, dunque padrone – il suo alter-ego. A contenderselo, due stelle inaspettate: Blake Lively, dea greca dal ruolo abbozzato; una Kristen Stewart bellissima e redenta, oggettivamente non troppo a proprio agio con i film retrò, per cui si hanno occhi innamorati. Pimpante nella prima parte e un po' frettoloso nel suo immalinconirsi, Café Society va scemando e non alza la voce, a discapito dei suoi anni ruggenti. Visione piacevole e ben lontana dall'essere memorabile, sul finire ispira l'esatta tristezza dei veglioni di Capodanno in cui, accanto all'anno che verrà, sembra celebrarsi tutto ciò che è fugace e illusorio: come questi anni '30 che non si curano ancora della guerra; come questi triangoli sentimentali che credono di avere tutto il tempo perché se ne venga a capo; come i sogni belli, d'amore, che al risveglio si scordano. (6,5)

Hank, naufrago, tenta di farla finita. A salvarlo dalla disperazione, l'arrivo di Manny, portato dalle onde. Tra i due, l'inizio di una straordinaria amicizia, tra confidenze e aiuto reciproco, per riempire le ore, le solitudini, le notti. Se la mettessi così, mi credereste, quando dico che Swiss Army Man è un'avventura umana ad alto tasso di emotività, buffa e toccante. Comprometto la mia affermazione, però, aggiungendo un dettaglio che vi sarà già saltato all'orecchio, se amate il cinema indipendente e dell'esordio dei Daniels, giustamente premiato al Sundance, avete sentito parlare: Manny, cadavere rigido e maleodorante, è morto per annegamento. Di tanto in tanto, la decomposizione gli gioca strani scherzi e, stecchito e tutto, si smuove, farfuglia, scoreggia; i suoi movimenti involontari, perfino le sue moleste flatulenze, possono essere d'aiuto su un'isola deserta. E così, complice la sua fervida immaginazione, Hank lo muove come una marionetta: lo fa parlare, e usa il suo corpo come ariete, salvagente, bussola, seconda voce nelle cantate in solitaria, confessore spirituale. Come spieghi cos'è la vita a un morto? Soprattutto, come gli riveli – tu che per lui sei tutto il mondo – che la tua esistenza, prima del naufragio, era ben peggio della sua? L'assunto iniziale non cambia: Swiss Army Man è una commedia surreale, che in parte nausea e in parte mette la pelle d'oca. Senza capo né coda, lì dove il ridicolo si spreca – scambi di ruolo, minacciosi orsi come in Revenant, peti come motori per solcare le acque –, in realtà è un'agrodolce riflessione sul sentirsi soli, fuori posto in un mondo non tagliato per i timidi cronici, che colora Castaway e Robinson di sprazzi musical e inguaribile follia. Sole attrazioni nel survival più grottesco e di cuore – ma che dico, di pancia - che incontrerai in vita tua, uno splendido Paul Dano e un inaspettato Daniel Radcliffe, forse bravo quanto mai, di cui sempre più spesso invidio le scelte e il coraggio. Sull'inservibile cellulare del primo, poi, la foto di un'altra musa indie, Mary Elizabeth Winstead: starà piangendo la sua scomparsa; lo aspetterà paziente a casa? Vuoi la colonna sonora che ricorda i brividi dei Sigur Ros, vuoi la sensibilità con cui sa stemperare il nonsense o, ancora, la familiarità con la domanda “ma se io scomparissi, qualcuno mi cercherebbe?”, l'opera prima di un assortito duo di nicchia libera dalle inibizioni e smuove qualcosa, nel profondo di te. Dirvi cosa non so, così su due piedi. Giuro che non sono solo i succhi gastrici; c'entra un po', immagino, anche l'anima. (7+)

Julieta, vedova in là con gli anni, decide di abbandonare la sua vecchia casa e di trasferirsi con il nuovo compagno. Non ha rimpianti, ma segreti sì. E ripensamenti? Cambia idea all'improvviso, infatti, quando un giorno incontra una persona di un'altra vita: la sua interlocutrice le dice che ha visto la figlia di Julieta, Antia, e i suoi tre bambini in Svizzera. Quella figlia che è uscita dalla vita della protagonista, anni prima, senza lasciare traccia; un fantasma che addolora, di cui neanche il suo nuovo amore sa. Dopo il pessimo Gli amanti passeggeri, un Almodòvar che conosce picchi e epocali scivoloni ritorna al cinema – puntando direttamente ai prossimi Oscar – con il libero adattamento dei racconti di Alice Munro. Melodramma tutto al femminile, raffinato e trascinante, Julieta si addentra in una travagliata relazione madre-figlia con una colonna sonora hitchcockiana, colori caldissimi e una squadra di esemplari primedonne. Qual è stata la colpa della protagonista affinché sua figlia fuggisse via? I flashback la mostrano giovane e innamorata, e per magia cambia volto, su un treno notturno: viene attratta da un passeggero, marinaio misterioso e disperato, e subito è amore grande. A condannarlo a una morte precoce, solo il mare in tempesta? Per la prima ora, un Almodòvar rinnovato, ma fedele a sé stesso, seduce e avvince come solo lui sa. Il dramma di una madre ripudiata e la rievocazione del suo grande amore, che ha portato alla nascita di una figlia irrequieta e rancorosa, lasciano pensare al meglio; c'è tanto in gioco. L'ultima mezz'ora – perché Julieta, purtroppo, è un film corto e, di conseguenza, inappagante – si converte alle ellissi narrative, ai salti indietro e in avanti, e mostra una chiusa brusca, che non soddisfa. Risibile, quasi, con l'emergere del solito tema dell'omosessualità, questa volta assolutamente buttato lì, e una lettera che non è sufficiente per i chiarimenti, la riconciliazione, una puntata di C'è posta per te. (6)

Aveva buone probabilità di piacermi, almeno su carta, qualcosa come Suicide Squad: forse il primo fumetto al cinema a prendere le parti non dei buoni, ma degli antagonisti. L'ho aspettato, immaginandomelo sarcastico, eccessivo, originale. Nei mesi che ci sono voluti per vederlo, però, la critica aveva già parlato – e, se male, di certo non a torto. Il cupo action di David Ayer, con una squadra di mercenari kamikaze senza niente da perdere, vede i prigionieri di una struttura di massima sicurezza collaborare per salvare il mondo da un pericolo maggiore. Ormai sulla bocca di tutti per il montaggio fatto alla bell'e meglio, il Joker latitante e una colonna sonora da estimatori, Suicide Squad mi è parso meno catastrofico di quanto letto qui e lì, ma comunque caotico, arrangiato, mediocre. Ci sfrecciano davanti in rapida successione le generalità e i moventi dei protagonisti – spiccano il solito Will Smith, padre di famiglia; la ammiccante e promettente Margot Robbie; una Viola Davis granitica -, e si ha la sensazione, tra borsette trafugate, nostalgie lampanti e unicorni di peluche, che questi loschi figuri siano cattivi di nome, ma non di fatto. Gli si contrappone la risibile Incantatrice di una doppia Delevingne, che agita il bacino, evoca gli stessi raggi laser del novello Ghostbuster e, soprattutto, è incapace di intimorire o incantare. Ci sono troppe facce, interpreti premio Oscar di cui non ci facciamo bastare l'introduzione sommaria; allo stesso modo, però, la carne al fuoco è troppo poca. Disimpegnato videoclip, Suicide Squad si regge su un trascurabile pretesto per aprire le strade di Gotham a un carrozzone colorato, in maschera, che costituisce un lungo preludio per un film che verrà. La missione dura due ore che non pesano – e sono abbastanza, ed è un pregio -, ma non trova né il tempo, né gli spazi vitali per sviluppare gli anticorpi: oltre le sbarre, fuori dalla sua cerchia di affezionati nerd. (5)


Nel 1970, un Elvis all'apice della notorietà chiedeva un appuntamento privato al presidente Nixon. Portava una pistola rarissima in regalo, da buon ospite, una coppia di assistenti fedeli (un sorprendente Pettyfer, l'inservibile Knoxville) e una richiesta surreale. L'uomo di cui tutto il mondo conosceva il volto, e la voce, voleva diventare infatti un agente federale. Il risultato del loro stranissimo faccia a faccia, diretto dalla regista indie Liza Johnson e prodotto da Amazon, è una commedia vintage dagli inaspettati tempi comici, con uno spunto minuscolo e la partecipazione di due grandi stelle. Michael Shannon è un inedito re del rock 'n roll, capriccioso, magnanimo, esigente, i cui progetti assurdi nascondono abilmente la sottile mestizia dei suoi ultimi anni di vita. Kevin Spacey, ben lontano dai maligni giochi di potere del suo Frank Underwood, è un leader politico aperto e incuriosito, che cura nel dettaglio la sua immagine pubblica e la conquista degli elettori più giovani; dello scandalo Watergate nessuno parla ancora. Poco somiglianti nell'aspetto, badano ai timbri di voce e alla mimica: sopra le righe, perché parte di un'atipica parentesi di storia contemporanea, ma esagerati mai troppo. La regia è impersonale, però, e il resto del cast è composto da un movimentato viavai di conoscenze telefilmiche; il messaggio del film, a tratti divertente ma pretestuoso, francamente sfugge. Quale spettatore, soprattutto se italiano, sentiva l'esigenza della cronaca del loro incontro? A visione ultimata il dubbio persiste – il tema non mi interessava, e all'indomani del fresco Elvis & Nixon non ho di certo cambiato idea -, ma ogni occasione è buona per guardare due fuoriclasse, qui leggerissimi, gigioneggiare senza freno. Allo stato brado, lungo gli impenetrabili corridoi della Casa Bianca. (6)

lunedì 10 ottobre 2016

Recensione: Un figlio, di Alejandro Palomas

"Credo che Guille, il Guille che vediamo, sia solo un pezzo di puzzle. E credo che sotto questa felicità... ci sia un mistero. Un pozzo da dove forse ci sta chiedendo di essere tirato fuori."

Titolo: Un figlio
Autore: Alejandro Palomas
Editore: Neri Pozza
Prezzo: € 16,00
Numero di pagine: 189
Sinossi: Guille non ha niente in comune con i suoi compagni di quarta elementare: è taciturno, non ama il calcio e ha sempre la testa tra le nuvole. Sarà perché non si è ancora ambientato nella nuova scuola, dice suo padre, Manuel Antúnez, quando la maestra Sonia lo convoca d’urgenza in aula docenti. Sonia, però, scuote la testa. Quella mattina, prima dell’intervallo, ha chiesto agli alunni che cosa avrebbero voluto fare da grandi. C’è chi ha risposto il veterinario, chi Beyoncé, chi ancora l’astronauta, Rafael Nadal o la vincitrice di The Voice. Guille ha risposto... Mary Poppins. 

                        La recensione
Quando finisco di leggere un romanzo, mi piace la successiva indecisione che provo stando impalato davanti alla libreria. Il tipico: è adesso cosa leggo? Ma se finisco di leggere un romanzo – metti caso, uno particolarmene deludente – e sono in piena sessione, c'è poco da fare: la lettura seguente dipenderà dal numero di pagine, non dall'ispirazione del momento. Al mattino, prendo i miei manuali, faccio una conta sommaria dei capitoli che mi toccherà memorizzare e, quando sembrano abbastanza, faccio un orecchio alla pagina. Con i romanzi, con questo Un figlio, ho fatto qualcosa di simile. L'ho soppesato, l'ho scorso da cima a fondo e ho visto che, con le sue duecento pagine scarse, si prestava sì. Quasi dimentico, a volte, preso puramente dalla scelta di libri sottilissimi e scorrevoli, che in poche pagine possano starci d'incanto belle storie: colpa di tanti romanzi rapidi e indolore, che si leggono e si dimenticano; senza peso, senza importanza. Ricordo che spesso mi sbaglio, che nella proverbiale botte piccola c'è il miglior vino, in un pomeriggio e un po' speso in compagnia dello spagnolo Alejandro Palomas: autore acclamato, portato qui dall'infallibile Neri Pozza, che guarda alle cose di tutti i giorni, ai dolori grandi e piccoli, con occhi poetici.
Il suo ultimo romanzo, che sfortunatamente è anche il primo firmato da lui che ho modo di leggere, è l'ordinaria storia di un rapporto padre-figlio, raccontata a punti di vista alterni. Guille, a nove anni, è un bambino ingenuo, sorridente, maturo: cos'è allora che mette in allerta le maestre, cosa c'è che non va? Una semplice domanda a proposito dei sogni nel cassetto, della ambizioni future, porta insegnanti e orientatrici a intervenire; a scuola, anche con una certa urgenza, chiamano il signor Manuel: padre single piantato in asso dalla moglie giramondo, che si prende cura come può di quel figlio ipersensibile e delle ferite di un amore finito male. Guille, pur cresciuto in una casa di piccoli uomini affetti da una feroce sindrome di abbandono, ha uno spiccato lato femminile che lo porta a essere deriso dai coetanei e, spesso, a discutere con un genitore che lo vorrebbe nella squadra di rugby. Il piccolo, invece, coglie margherite nei campi sportivi, vuole ballare come Billy Elliot e, soprattutto, sogna di diventare tale e quale a Mary Poppins, crescendo. Sonia e Maria, maestra e psicologa infantile, leggono una richiesta d'aiuto dietro l'insolita, ma innocente affermazione: la tata inglese della Travers, infatti, volteggiando tra una nuvola e un ritornello, risolve problemi, cura i cuori, esaudisce i desideri di felicità. Cosa non va, davvero, a casa Antunèz? Come far sì che la più cara amica del protagonista, bambina straniera destinata a un matrimonio combinato con il cugino quarantenne, laggiù in Medio Oriente, non parta per sempre? In Un figlio, fiaba commovente e tenerissima, Guille fa affidamento a una recita scolastica: deve indossare abiti femminili in pubblico, imbracciare il caratteristico ombrello scuro e ripetere la “parola magica” fino a quando le cose non torneranno a essere com'erano. 
Protagonista dolce e sognatore, ma insospettabilmente forte, l'eroe in miniatura di Palomas bagna il letto, indossa qualche abito della mamma per sentirla vicina e, nei suoi disegni grossolani, si apre a confessioni impensate. Aspetta il martedì, perché di martedì arrivano le lettere di una mamma che lavora a Dubai e non prende mai un giorno di ferie, e sa che non deve entrare nello studio del padre quando, su Skype, piange e supplica la donna della sua vita di tornare da loro. Accanto a lui, un genitore non abituato alla tenerezza, chiuso nel suo dolore, ma non per questo un cattivo papà; un'insegnante che vorrebbe capire cosa passa per la testa al nostro Guille, mentre ostenta euforia; un'orientatrice che, come Mary Poppins, risolve i pasticci e va via col cambiare del vento. Chi si prende cura di chi, in Un figlio? Cosa si cela appena sotto la superficie, tra misteriosi cenni a scrigni, sirene e ultime volte? La storia di un affetto profondo, di un bisogno viscerale e, soprattutto, di un giallo psicologico da risolvere, ricomponendo il puzzle del bambino che desiderava l'impossibile. Al di là dei toni delicati, oltre la favola, in Palomas c'è una disperazione tangibile, un enigma e, vagamente, qualcosa di me: del figlio che ero e del figlio che sono. Si sorride, ci si emoziona, ma la suddivisione in quattro punti di vista – quelli di Manuel e Sonia, tra l'altro, vengono accantonati in fretta –, spesso, non appare particolarmente funzionale; ha il difetto di dilatare la narrazione, che dunque rimbalza da una voce all'altra a capitoli alterni, e di trascinarsi dietro un duro colpo di scena (intuito comunque da un po', ma non per questo meno spezzacuore). A volte, i figli badano ai genitori. A volte, i piccoli danno lezioni ai grandi, se la realtà mette alla prova e ci vuole un po' di zucchero, sana immaginazione, perché la pillola amara vada giù insieme al familiare groppo in gola; alla voglia di non alzarsi dal letto, oggi e domani. Lo spettacolo di un padre in lacrime, che turba; le grandi mancanze delle madri altrove; la vocazione di qualche insegnante, che sa leggere tra le righe. Qui, di tutto un po'. Se cantare Supercalifragilistichespiralidoso non porta a tempestivi giovamenti, in presenza di famiglie scomposte e altre catastrofi, la prossima volta provate Palomas.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Ermal Meta – Odio le favole